Dal Migration Compact al Summit di Abidjan: il ruolo dell’Italia
Il Piano europeo per l’Africa de La Valletta e il “Migration Compact” dell’Italia
Secondo i dati del Ministero dell’Interno italiano, i migranti sbarcati in Italia sono stati 158.393 nel 2014, 143.594 nel 2015 e 167.276 nel 2016. I migranti sbarcati in Italia da inizio 2017 a fine ottobre sono stati 111.000, il 25% in meno rispetto allo stesso periodo del 2016: il calo è dovuto alla strategia condotta dal Governo con gli accordi conclusi con il Governo della Libia, da cui proviene la gran parte dei migranti, d’intesa e con il sostegno finanziario della Commissione Europea. Nella quasi totalità sono africani: nel 2016, il 21% proveniente dalla Nigeria, il 12% dall’Eritrea, il 7% dalla Guinea come pure dal Gambia e dalla Costa d’Avorio, il 5% dal Senegal e il 5% dal Sudan. Si tratta nella maggioranza di migranti cosiddetti “economici”, spinti ad emigrare dal deterioramento dell’ambiente sociale ed economico, dalla povertà e dalla disoccupazione; una minoranza è costituita dai rifugiati, per lo più provenienti dall’Eritrea, spinti ad emigrare da motivazioni politiche, soppressione dei diritti umani e delle libertà civiche e divisioni etniche e religiose. A differenza dei rifugiati, che hanno per un tempo indefinito rescisso il rapporto con il loro paese, il problema dei migranti economici è legato alle cause strutturali delle migrazioni. L’esigenza di affrontare queste cause si era avvertita alla riunione a La Valletta di leader europei ed africani dell’11-12 novembre 2015, che si è concluso con l’approvazione di un Piano comune per la gestione delle crisi economiche all’origine delle migrazioni e l’istituzione di un Fondo Fiduciario per l’Africa con una dotazione iniziale di circa 1,8 miliardi di euro per interventi di cooperazione e per controllare le migrazioni irregolari.
Nella prospettiva di nuovi rapporti di cooperazione tra Europa ed Africa in campo migratorio aperta dalla riunione de La Valletta, il Governo italiano presentava nell’aprile del 2016 alle istituzioni europee (Commissione e Consiglio) con il “Migration Compact” una serie di proposte sia per la gestione ordinata dei flussi attraverso la collaborazione sul piano della sicurezza (controllo delle frontiere, controterrorismo e regolamentazione delle migrazioni legali) sia per l’avvio di un grande programma di investimenti nei paesi africani da finanziare con una emissione di debito europeo sotto la supervisione della BEI e di altre organizzazioni economiche internazionali. La Commissione europea, che aveva all’inizio accolto favorevolmente le proposte italiane, era costretta dalla opposizione della Germania al finanziamento dei progetti di investimento con obbligazioni comunitarie (i cosiddetti eurobond) a circoscriverne la portata e scorporare dal Piano le questioni non direttamente correlate al controllo delle frontiere. Nella versione definitiva il Piano per l’Africa (o “New Partnership Framework” come veniva chiamato) presentato dalla Commissione nel settembre del 2016 si rivolgeva principalmente ai migranti economici provenienti dal continente africano e interveniva sul piano dell’emergenza e su quello, più esteso temporalmente, della cooperazione allo sviluppo con lo stesso obiettivo, valido tanto per il breve quanto per il medio e lungo periodo, di bloccare e controllare i flussi migratori in cambio di aiuti economici ai paesi di provenienza e di transito.
Nell’ultima versione il Piano per l’Africa partiva con 3,35 miliardi di fondi comunitari, che dovevano servire a mobilitare investimenti privati per 44 miliardi di euro, ma che potevano arrivare fino a 88 miliardi con le integrazioni degli Stati membri. Si sono manifestati sin dall’inizio forti dubbi che tale meccanismo di leva potesse effettivamente realizzarsi, come è in effetti avvenuto, sia sugli investimenti privati nella fase di recessione attraversata dall’Europa sia sulla compartecipazione in eguale misura degli Stati membri riluttanti a provvedere finanziamenti aggiuntivi per la gestione delle migrazioni, da distogliere dai già ridotti fondi nazionali per attività di cooperazione allo sviluppo. Anche da un punto di vista operativo si nutrivano dubbi che i partner africani designati (Etiopia, Mali, Niger, Nigeria e Senegal) come paesi di origine dei migranti, cui si sono poi aggiunti Tunisia e Libia come paesi di transito, sarebbero stati in grado di rispettare gli impegni in contropartita agli aiuti economici di blocco e controllo dei migranti nonché a riprendersi i migranti irregolari rispediti dall’Unione Europea. Ma è sulla mancanza di un valido nesso funzionale e temporale tra aiuti e impegni degli Stati riceventi che si appuntano le critiche maggiori, dato che gli aiuti allo sviluppo, che dispiegano i loro effetti nel lungo periodo, diventano assistenza nel breve e medio termine ai paesi di transito o di origine delle migrazioni per gestire i flussi e controllare i trasferimenti di persone: nella sostanza, la collaborazione nel controllo dei migranti, nella riammissione e nei rimpatri è divenuta la componente fondamentale del nuovo partenariato con l’Africa ancorato ad una visione di breve termine.
Alla data del 15 dicembre 2017 risultavano assegnati al Fondo 3,3 miliardi di euro, di cui 375,1 milioni di euro forniti dagli Stati membri ed altri partner internazionali: l’Italia, con 102 milioni, ha contribuito con il 27,2% ai fondi bilaterali. Il grosso delle risorse è venuto dall’European Development Fund e da altri strumenti finanziari in precedenza destinati a progetti di sviluppo). Alla data del 4 dicembre 2017 sono stati approvati negli ultimi due anni dal Fondo Fiduciario più di 100 progetti, varianti da iniziative di sviluppo a misure intese a ridurre i flussi irregolari, per un totale di 1,9 miliardi di euro. I principali beneficiari sono stati il Niger (189,9 milioni di euro), il Senegal (161,8 milioni), la Libia (158,2 milioni), l’Etiopia (157,5 milioni) e il Mali (156,5 milioni). Numerosi progetti, approvati nel 2016, hanno mirato allo sviluppo, ma la limitatezza dei fondi rispetto a quelli rivolti al contenimento dei flussi migratori, ne hanno fortemente ridotto l’impatto. Le iniziative del 2017 hanno rinforzato lo spostamento dallo sviluppo alle implicazioni di sicurezza nel breve termine delle migrazioni, come dimostrato dal fatto che gli interventi nel Nord Africa sono stati finora rivolti alla gestione e al controllo delle migrazioni. Alla Libia in particolare sono stati destinati 46 milioni per un progetto, che si sta attuando in cooperazione con il Ministero dell’Interno italiano, che va all’addestramento della Guardia Costiera libica al controllo dei migranti alle frontiere meridionali del paese. Anche sul piano bilaterale l’intensificarsi del fenomeno migratorio ha determinato lo spostamento delle risorse dell’aiuto pubblico allo sviluppo dagli interventi tradizionali della cooperazione allo sviluppo localizzati nei paesi di provenienza dei migranti alla gestione dell’accoglienza, in particolare dei rifugiati e richiedenti asilo. In Italia, mentre l’aps totale nel 2016 (4.476 milioni di euro) è aumentato del 13% rispetto al 2015, l’impegno per l’accoglienza è passato dai 960 milioni di euro del 2015, pari al 24,3% dell’aps totale, a 1 miliardo e 570 milioni del 2016, pari al 35% dell’aps totale.
Per quanto concerne l’Africa, l’impiego del fondo di 200 milioni di euro, istituito con la legge di bilancio del 2017 “per interventi straordinari volti a rilanciare il dialogo e la cooperazione con i paesi africani d’importanza prioritaria per le rotte migratorie”, ha confermato questa tendenza. Dei 143,2 milioni di euro finora rendicontati, appena 6,5 milioni sono andati a iniziative di cooperazione vera e propria (3 al Niger nel settore agricolo e 3,5 all’Etiopia nel settore tessile). I restanti 136,7 milioni sono stati ripartiti fra attività di controllo delle frontiere (84,5 milioni in Niger, Libia, Ciad e Tunisia), rimpatri e assistenza a rifugiati e migranti (45 milioni nel Sahel, Libia e Etiopia), protezione dei minori (4,5 milioni in Africa occidentale e Sudan), cooperazione giudiziaria e contrasto alle migrazioni irregolari (2,7 milioni in Africa occidentale e orientale).
Il nuovo Partenariato Europa-Africa di Abidjan e il ruolo dell’Italia
La cooperazione tra Europa ed Africa avviata al Summit di Abidjan, o “Piano Marshall per l’Africa” come il nuovo partenariato è stato chiamato, investe sia il lungo che il breve-medio periodo. Partendo da una disponibilità immediata di 4,1 miliardi di euro il nuovo Piano europeo per gli investimenti esterni (External Investment Plan) dovrebbe mobilitare da qui al 2020, grazie all’utilizzo di fondi pubblici di garanzia, 44 miliardi di investimenti privati in Africa, che contribuiranno alla costruzione di infrastrutture critiche e aiuteranno le piccole imprese locali a ottenere i crediti necessari per espandere le proprie attività e dare lavoro ad un maggior numero di persone, specialmente ai giovani. Successivamente, si punta a raccogliere nel bilancio dell’Unione 30-40 miliardi di euro che, grazie alla leva finanziaria, dovrebbero lievitare a 350-400 miliardi per rilanciare nel giro di un decennio l’economia del continente e bloccare i flussi migratori. Nel frattempo, in attesa che il nuovo Piano europeo per gli investimenti esterni lanciato ad Abidjan diventi operativo in base alle effettive disponibilità di bilancio dell’Unione, si potrà continuare ad utilizzare i fondi residui del Fondo Fiduciario per l’Africa avviato a Malta, assicurando che i finanziamenti del Fondo Fiduciario non siano usati per il controllo delle migrazioni e non siano strumentalizzati per rispondere ad interessi europei di sicurezza e di gestione delle migrazioni, ma che gli interventi siano coerenti con le politiche per lo sviluppo e in linea con i piani di sviluppo dei paesi partner, aiutando in particolare i giovani e le donne nell’ambito della formazione professionale e della creazione di piccole e micro-imprese, come in parte avvenuto in passato.
La nuova strategia di cooperazione europea in Africa delineatasi ad Abidjan, determinando la svolta della cooperazione multilaterale dalla gestione dell’emergenza emigratoria allo sviluppo sostenibile dei paesi di provenienza sia nel breve che nel lungo termine con progetti diretti a incentivare le potenzialità locali, comporta un riesame delle politiche di cooperazione bilaterale in linea con gli indirizzi stabiliti al Vertice. In Italia, la Conferenza Nazionale sulla Cooperazione allo Sviluppo, che si è tenuta a Roma il 24 e 25 gennaio scorso, ha offerto l’opportunità per una discussione aggiornata sul nesso tra sviluppo sostenibile e politiche di cooperazione internazionale e a formulare proposte per orientare le attività della Cooperazione italiana dei prossimi anni in linea con le direttive del nuovo partenariato europeo con l’Africa: fra esse, quelle relative alla compartecipazione nelle iniziative dei molteplici soggetti della cooperazione (pubblici e privati, profit e no profit, locali, nazionali e internazionali), al ruolo degli attori dello sviluppo locale, donne e giovani in particolare, alla dimensione territoriale coinvolgente gli enti locali in Italia e nei paesi partner, al monitoraggio e alla valutazione dei progetti e al ruolo del settore privato. E’ un processo, questo, di riesame delle politiche di cooperazione allo sviluppo e di revisione delle priorità, che deve proseguire coinvolgendo l’intero Sistema Italia: il settore pubblico e quello privato, il sistema bancario, il mondo delle imprese, in particolare delle piccole e medie imprese, e le organizzazioni non governative.
Grazie alla esperienza acquisita nei settori della cooperazione allo sviluppo, della internazionalizzazione delle imprese, del microcredito e della microfinanza, degli interventi a sostegno delle piccole e medie imprese, ed agli accordi di partenariato economico stabiliti con numerosi paesi dell’Africa mediterranea e sub sahariana, il nostro Paese è nelle migliori condizioni per concorrere alla realizzazione degli obiettivi posti dal Piano di Abidjan, promuovendo la complementarietà tra le risorse nazionali forzatamente limitate e le più vaste risorse che l’Unione può mobilitare per lo sviluppo economico del continente africano e contribuendo in tal modo alla definizione di un nuovo “Migration Compact”.